Ha scelto la verità al posto del successo facile, la voce ruvida invece dell’applauso facile. Un disco che sembrava un errore e invece era una dichiarazione d’identità. E col tempo è diventato una pietra miliare del rock italiano
Oggi fa tristezza vedere che è diventato un meme, un artista che nelle (sempre più rare) occasioni in cui si affaccia al grande pubblico viene deriso e apostrofato con gli epiteti peggiori: ubriacone, drogato e tutti questi giudizi sommari che alla gente piace tanto dare.
Probabilmente se l’è un po’ cercata, Gianluca Grignani, e tra l’altro questa immagine da (ex) bello e (tuttora) dannato gli fa tanto gioco ancora oggi.
Oggi che ha scavallato i 50 anni, non ha più la faccia pulita degli esordi ma sa regalare ancora bombe atomiche come Quando ti manca il fiato, la meravigliosa ballad che a Sanremo di qualche anno fa fece piangere tutti. Compreso Bruno Vespa che lo ospitò in trasmissione e non riuscì a trattenere le lacrime dopo la sua performance.
Da quel momento Gianluca manca dalle scene: dice di star preparando il disco della vita, ma fra continui rinvii e un po’ di mistero che gli aleggia attorno sta diventando un po’ una telenovela. Eppure – lui lo sa molto bene – in realtà il disco della vita lo ha fatto nel 1996. Lo abbiamo (lo avete!) scoperto bene negli ultimi tempi, a 25 anni dalla pubblicazione, ma ora sta finalmente raccogliendo il successo che merita e che ha sempre meritato.
Uscito in ristampa per i 25 anni dalla pubblicazione, La Fabbrica di Plastica è stato rivalutato alla grandissima da diverse riviste specializzate che lo hanno incastonato con buona ragione nell’Olimpo degli album rock italiani. “Se questo album avrà successo sarà una rivoluzione culturale”, disse il comico Dario Vergassola a Gianluca all’epoca dell’uscita del disco. Purtroppo si sbagliava.
Erano gli anni nei quali Grignani emergeva come bello e dannato dopo il successo di Destinazione Paradiso. La major che lo aveva sotto contratto voleva un disco su quella falsariga, voleva l’ennesimo teen idol però con la chitarra. Ma Gianluca no, lui non ci stava ad essere “un prodotto ben plastificato”: andò in crisi, partì per gli USA, passò per la Jamaica e tornò con i capelli sparati in testa e uno sguardo diverso. Sul mondo e sulla sua musica.
“Fabbrica” era un grido di ribellione di un ragazzo che dentro aveva un mondo che in quel momento non interessava a nessuno ma che lì riuscì a far uscire tutto. Le influenze dei Radiohead, quelle dei Beatles e di tutto il rock internazionale ma soprattutto una voglia di urlare un disagio che poi era quello dei (pochi) fan che lo seguirono: l’album fu un flop, almeno nelle vendite, e quella rivoluzione la abbozzò soltanto. Un vero peccato.
Il disco è istintivo e “sporco”, come del resto denota anche la copertina, alcuni pezzi sono semplicemente devastanti: dalla track title all’iconico “L’Allucinazione”, di cui vi abbiamo appena proposto una divertentissima performance a due con Carmen Consoli. Ma anche ballate strazianti come Galassia di Melassa e Solo Cielo. Da ascoltare tutto d’un fiato dalla prima all’ultima traccia, come si faceva prima di Spotify e della musica fast food.
Fabbrica è un percorso che dall’inizio alla fine è perfettamente coerente nella sua lucida follia: quella di un ragazzo che sapeva di star rinunciando al sogno di ogni aspirante artista, per un motivo molto semplice: quel sogno era degli altri, non era il suo. Lui voleva solo fare della buona musica. E per un periodo “di grazia” (anche il successivo Campi di Popcorn fu assolutamente all’altezza dei primi due dischi) la fece davvero da Dio.
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