C’è chi canta per farsi sentire e chi per non esplodere. In Italia il folk rock ha scelto la seconda via. Ballate sussurrate, rabbia lucida e verità senza trucco
Certe cose, in Italia, non fanno rumore. Non riempiono stadi, non si impongono con slogan, non diventano meme. Ma restano. Lì, in fondo a certe giornate storte, o in mezzo al traffico con le cuffie a tappare il mondo.
Il folk rock italiano non ha mai cercato l’applauso, ma quando lo riceve se lo prende tutto. Senza pretese. Con quella timidezza elegante di chi racconta la verità senza mai alzare la voce.
L’indie ha avuto un successo importante e ha tracciato uno stile ben definito, pur con tante declinazioni. Il folk rock italiano invece ha radici ben definite, come tutto il genere, ma poi ha preso varie diramazioni, non tutte di successo.
C’è qualche caso di studio che possiamo incasellare (a fatica) in questo genere e che alla fine “ha svoltato”, ma alcuni artisti restano piccole perle tutte da scoprire. Proviamo a scoprirne qualcuno insieme.
Questo genere da noi è un animale strano. Non ha mai avuto la spavalderia americana né il purismo inglese. È una creatura ibrida, spesso cantautorale, che si nutre di parole prima ancora che di note. Eppure ha una sua coerenza. Ha una geografia, delle stagioni, delle voci.
L’ormai famosissimo Brunori Sas, per esempio, è partito da lì. Dai racconti di paese, dal sarcasmo dolceamaro di chi ha conosciuto la provincia senza disprezzarla. Le sue prime ballate erano spartane, acustiche, fatte di chitarra e verità. Poi è arrivata l’orchestra, la produzione più complessa, ma l’anima è rimasta quella: raccontare il quotidiano come se fosse mitologia.
E poi ci sono quelli che il folk lo usano come una tavolozza, dipingendoci sopra visioni pop, favole rurali e mondi paralleli: Lucio Corsi è uno di questi. Con la sua estetica tra Bowie e la Maremma, ha dimostrato che anche il folk può volare alto, basta avere una storia abbastanza strana da raccontare.
Oppure c’è Gnut, che ha fatto del folk napoletano qualcosa di internazionale. Le sue canzoni sembrano scritte all’alba, quando Napoli non ha ancora indossato la sua confusione e resta nuda, fragile. Poi c’è il romano The Niro, un artista che ha assorbito il folk anglosassone e lo ha trapiantato in una lingua molto più complessa. Le sue melodie sono spesso malinconiche, ma mai rassegnate.
Ma il folk rock italiano non è solo carezze. Ha anche una sua rabbia lucida, una lama sottile che ogni tanto graffia. E allora torna utile il nome di Cristiano Godano, soprattutto nella sua carriera da solista. Dopo anni con i Marlene Kuntz ha deciso di spogliarsi di tutto: distorsioni, urla, rumore. È rimasto lui, la chitarra e il bisogno quasi fisico di dire cose.
Questa è solo un’introduzione, perché di artisti da scoprire ce ne sono davvero tantissimi. E se li scoprite ve ne innamorerete. In un’epoca in cui tutto deve urlare per farsi notare, il folk rock italiano ha scelto di restare in controluce. Ma chi lo ascolta, chi lo vive, sa che lì dentro si trovano le storie migliori. Quelle che sembrano parlare proprio a te, in un dialogo fra amici intimi che sanno guardarsi dentro.
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